CENNI CRITICI

Giorgio Seveso

Tra arcaismo e attualità

Un senso di déjà vu, di avere già vedute queste forme, può sgorgare dalle pieghe più profonde e sepolte dell'animo umano, dagli archetipi che ognuno di noi porta dentro e che di tanto in tanto solo qualche artista riesce a riportare in superficie. Artisti come appunto il nostro Barbagallo, che le trova, queste forme, riscoprendole dentro di sé tra arcaismo e attualità, tra antiche negritudini alla Aimé Césaire e citazioni ellenistiche o gotiche, tra simboli e allegorie incastonate in una assorta sintesi plastica.
Attualità e arcaismo, appunto, come già l'amico Martucci aveva riassunto nel titolo di uno scritto a lui dedicato, e che costituiscono le sponde di questa felice ma insieme assorta ricerca dell'artista lombardo.
Quello che mi è subito piaciuto nel suo lavoro è proprio questa sua autenticità originaria, questa sorgiva ispirazione diretta, interiore, rivolta a sostanze profonde che superano a volo ogni opportunismo formale o di gusto. La scultura, difatti, può davvero diventare, secondo il tragico aforisma di Arturo Martini, una lingua morta laddove e quando l'artista che oggi la pratica si rifaccia soltanto e meramente alle pure ragioni della forma, condizionando i segni plastici e l'immaginario alle esclusive logiche del gusto. Ma, considerando il lavoro di Barbagallo, possiamo accorgerci di essere invece di fronte a un artista che, pur maneggiando e padroneggiando un repertorio formale ed espressivo di decisa attualità, in cui importante ed evidente è il ruolo della formalizzazione, non ha per nulla e mai rinunciato tuttavia a volere ben viva la sua scultura, ad impegnarsi perché le sue opere riescano davvero, e intensamente, a comunicare con la nostra sensibilità, nel collegamento al grande serbatoio di valori e sentimenti indistinti e sospesi che agitano l'inconscio dell'uomo.
E ciò accade, direi, anche per l'evidente e costante allusività figurativa che, a differenza oggi di altri suoi coetanei e conterranei, è presente nelle sue elaborazioni. Difatti, le stilizzazioni e le geometrizzazioni che sotto le sue mani percorrono il metallo e il legno, la terracotta e la pietra, non appaiono mai fini a se stesse, non risultano mai esclusivamente ispirate alle semplici ragioni del bello scultoreo o a quelle di una precisa e rigida sintassi stilistica, e si collegano invece, grazie alla chimica misteriosa della poesia, alle sostanze emozionali della figuratività.
Ma accade, soprattutto, perché di tutta evidenza non è solo la definizione della struttura plastica a interessarlo. In altre parole, la sua formalizzazione dell'immagine non è mai soltanto formalistica, e si riscalda invece al calore di un immaginario ben più complesso e completo, in cui si possono ritrovare, sì, gli spazi della ricerca ma anche si rinvengono una concentrazione, una meditazione, un fervore liricamente precisi.
Barbagallo, che viene da una famiglia di piglio tutto artigianale (il mestiere di scalpellino, da lui, era tramandato di padre in figlio) è, anche per questo, artista di non semplice e immediata lettura. Il suo rapporto con i materiali dell'immaginazione è, infatti, un rapporto complesso, di scavo e di sintesi, che si regge su una profonda e quasi istintiva o connaturata perizia tecnica, raffinata poi all'Istituto d'Arte monzese e all'Accademia di Brera, e vive soprattutto come rapporto affettivo, come coinvolgimento emozionale al sentimento stesso dell'esistere e della vita. Per questi motivi il suo lavoro si svolge secondo lente e assorte maturazioni tematiche che, con approfondimenti, riprese, nuove intuizioni e ritorni, gira attorno al tema dell'essenza antropomorfa di alcune forme/tipo dall'arcaico sapore emblematico. Un tema che innesca, appunto, la fantasia, la dilatazione lirica, la metafora poetica interna alle forme stesse, e trascina suggestivamente le tensioni tattili e plastiche della scultura in un largo territorio evocativo.
Le sue figure chine o raggomitolate, spigolose, sintetiche, slanciate verso iperboliche dilatazioni e mutazioni anatomiche, ne sono uno dei primari centri d'attenzione. Insieme, beninteso, alle coppie sedute che, come per i celebri manichini di Giorgio De Chirico nei "Grandi archeologi", esibiscono una loro impassibile metafisica staticità, fatta di emblema e di silenzio. E insieme al ricordo, ritornante in molte immagini più massicce e individuali, delle "grandi madri" di Henry Moore e della loro ambigua, tondeggiante, totemica arcaicità. Per non dire, ancora, del geometrismo magico di Fritz Wotruba e per non riparlare delle misteriose, quasi antropologiche coincidenze con un certo tipo di artigianato africano che, come dicevo all'inizio, affonda le sue radici nell'humus germinativo della specie, là dove appunto il grande poeta nero Aimé Césaire indicava una delle fonti vitali dell'immaginario umano.
La mia negritudine non è né torre né cattedrale
si tuffa nella carne rossa del sole
si tuffa nella carne ardente della storia
percorre l'opaco abbattimento
con la sua diritta pazienza del futuro.
Non sarà per caso, a questo proposito, che un'intera parete della casa di Barbagallo è occupata da una collezione di sculture africane...
Il suo lavoro, insomma, e tutta l'elaborazione interiore che lo accompagna, non è un compimento figurale di solo gusto, abbandonato all'impulso e all'estro, ma è affidato, invece, a un sentimento preesistente, che lentamente viene distillandosi in un attento studio preventivo dell'idea d'immagine da fissare. Studio, o progetto, che procede contemporaneamente alla valutazione e all'apprezzamento sapiente di ogni aspetto e particolarità naturali della materia nella quale la scultura verrà poi eseguita.
Il suo lavoro deve essere davvero inteso, dunque, come la rivendicazione di una totale libertà dell'artista a seguire, ogni giorno, il proprio istinto e le proprie ragioni ispirative al di là di ogni pregiudiziale o moda stilistica e, anche, al di là di ogni motivo apparente di coerenza. Poiché, appunto, la coerenza autentica non è d'ordine formale, linguistico, bensì risiede nell'intensità del rapporto poetico e trasfiguratore con le cose.
È anche in questo senso che la scultura di Barbagallo presenta delle curiose singolarità, dei tratti estremamente personali, che certo discendono in qualche modo dalla sua storia individuale, dalla sua formazione e dalle sue esperienze esistenziali oltre che dalla sua istintività sorgiva. Intanto, il rapporto tra la società che lo circonda e i valori (o i disvalori) dell'immaginario collettivo oggi prevalente è, in lui, fortemente critico, pungente, talvolta esplicitamente risentito. Non è un caso che anche lui, come molti altri artisti, abbia scelto di vivere in campagna, un po' defilato insomma nei tempi e luoghi visivi quotidiani dal frastuono esistenziale delle nostre metropoli, dal loro gremitissimo vuoto. Ciò accade, beninteso, non perché egli sia un disadattato, un deraciné, un ribelle caratteriale; ma perché, al contrario, avverte internamente che il calore delle sue tensioni ideali, delle cose che sente, anche magari in tutta la loro spigolosa semplicità, oggi si è fatto sempre più estraneo alle arie che respiriamo quotidianamente.
Un senso di solidarietà verso gli uomini, verso la natura, verso la vita non può coincidere e neppure pacificamente convivere con il cinismo, la violenza latente, le alienazioni inaudite che oggi condizionano le culture urbane dell'uomo.
Da qui, certamente, discende uno dei motivi plastici caratteristici del suo lavoro, talvolta, appunto, così aspro, spigoloso, robustamente ruvido e risentito. Un tono di fondo, dunque, la cui consistenza appare addirittura come il traslato di umori esistenzialistici, come la traduzione di una condizione testimoniale nella ricerca e nel recupero di valori fermi, densi, importanti per l'uomo...
E, tuttavia, grazie al lirismo che lo percorre, tale tono non è mai negativo, mai pessimistico o rinunciatario.
Nei soggetti e nelle forme il suo non è mai un chiudersi in sé, non è mai l'eco sordo di un rifiuto. Le idee e i sentimenti sinceri non hanno, per lui, bisogno di didascalie, di letteratura, di enfasi. L'opera proviene direttamente dai materiali psicologici ispirati appunto da quelle idee e sentimenti, e dunque è già di per sé significativa, alludendovi nella sua totalità, nella sua molteplice complessità di motivi.
È un giudizio che si trasferisce direttamente, a ben guardare, anche sul piano della visione che egli ha del rapporto tra la scultura e gli spazi esterni, cioè, in breve, della possibile monumentalità della scultura.
I monumenti e le grandi sculture da esterni hanno il rischio e i limiti del celebrativo e, insieme, del decorativo. Anche Barbagallo ne ha eseguiti alcuni, sia a tema che più dilatati e immaginifici, pensando sempre, però, quando e se possibile, a sfuggire alla monumentalità che, appunto, ne costituisce il maggior pericolo. E in questo è vicino, bisogna dirlo, agli orientamenti di altri ammirevoli scultori di una modernità che si collega ai valori dell'eterno, da Marino Marini a Henry Moore, ai già citati Arturo Martini e Wotruba... Dunque, anche qui e come lui, artisti connotati da una chiave estremamente moderna e al contempo di "classicità" ben precisa.
Ogni poeta, come scriveva Antonio Porta, sa che il proprio lavoro nasce dalla necessità di esprimersi, e in secondo luogo di esprimere. In seguito a queste due necessità, il poeta è colui che si forgia un linguaggio, ed è proprio dal linguaggio che si vede se qualcuno è realmente poeta: la necessità di esprimersi o il sentimento da soli non bastano. Nel caso di Barbagallo, e delle sue poesie in forma di scultura, lo scolpire e il conformare si sono costruiti e rifiniti energicamente in un linguaggio ormai incontestabilmente suo, con assidua densità di spunti e soluzioni espressive. E soprattutto, oggi che ha da poco superato i quarant'anni e si avvia a una fervida e adulta artisticità, un linguaggio fatto di emozioni concrete, di riconoscibile identità compiuta, di reale personalità comunicativa.


Franco Migliaccio

Corpo, spirito e materia, fra novazione e senso dell'antico

Quando osservo le opere di Orazio Barbagallo la mia mente corre a Jaccques Lipchitz, Alexandr Archipenko, Joseph Czaky e, soprattutto, ad Ossip Zadkine. Mi spiego: con ciò non voglio affermare che i referenti dell'artista vadano ricercati fra i rappresentanti della scultura cubista; è vero però che Barbagallo indulge ad una stilizzazione che fa della scomposizione dei piani e dei volumi il suo punto caratterizzante.

Nessun problema visuale, tipico del cubismo, in qualche modo collegato alla visione simultanea; e nemmeno risoluzioni spaziali di natura concettuale. In Barbagallo tutto ciò è pura ricerca formale, caratterizzazione volumetrica con cui giungere a precisi esiti espressivi e ad una poetica che, mentre si dimostra sensibile ai temi di ricerca della modernità, lancia uno guardo interessato a tutto ciò che è arcaico, primitivo e molto lontano nel tempo e nello spazio.
E' per questo che le sue immagini risultano così monumentali, anche quando le dimensioni delle opere monumentali non sono; è per questo che le figure hanno quell'aspetto così maestoso e, insieme, ieratico, come sacerdoti dell'antico Egitto o come idoli magici di qualche altra remota civiltà.

Barbagallo è in bilico fra passato e presente, fra memoria storica e conoscenza di tutte quelle ricerche espressive che sono il vero patrimonio del divenire delle arti plastiche. Da questa posizione, assunta non tanto per via intellettuale quanto per conformazioni di sensibilità proprie, è pervenuto a soluzioni di sintesi coniugando armoniosamente stile e contenuto, dato emozionale e ragioni della coscienza, intuizione ispirativa ed elaborazione poetica.
Le sue volumetrie seguono movimenti ondulari ascensionali interrotte da angolarità improvvise (richieste da un'attitudine costante per la geometrizzazione) spesso sinanche brusche e taglienti; volumetrie che appaiono fra le aggettanze e le rientranze delle masse plastiche e che inglobano in sè anche i vuoti: come faceva Henry Moore, anche Barbagallo utilizza le assenze plastiche come elementi di "attraversamento" spaziale, come punti in cui la luce può esprimere il suo massimo contenuto ed esaltare i contrasti ciaroscurali e pittorici.

Tutte le opere dell'artista sono intrise di spiritualità non contingente, esaltata da un moto verticalizzante che sembra voler proiettare le figure verso il cielo, verso i misteri del cosmo. Il punto centrale della sua poetica è l'uomo, coi suoi drammi interiori ed esistenziali, non ripresentati mai in maniera diretta, didascalica, ma attraverso un sottile gioco di ambiguità, di "doppiezze" che costituiscono il nucleo di un apparato ideativo enigmatico e, dunque, pieno di fascino sottile. E' un gioco di assonanze psicologiche, di lievi sottolineature e di generali approssimazioni (l'uso subliminale di forme archetipiche o di pertinenza magica) che rendono le immagini di Barbagallo mai scontate, mai fini a se stesse o declinanti verso mere soluzioni estetizzanti, ma ricche di quella (apparente) indecifrabilità contenutistica che solo l'appello al senso del mistero può così misteriosamente generare.

Febbraio 2002

Pier Luigi Senna

Figure

Plasticatore è termine desueto, che indica propriamente chi modella figure in rilievo. Il concetto si differenzia pertanto da quello di scultore, riservato a chi ricava le figure celate nella materia rimuovendo quanto sta loro attorno. E' arcinota la distinzione tra "porre" e "levare", citata sovente ma di fatto ignorata, giacché nell'uso comune ci si limita a contrapporre la scultura, che possiede tre dimensioni, alla pittura che è solo bidimensionale.
Orazio Barbagallo, seguendo un'antica tradizione di famiglia, è tanto scultore quanto plasticatore; oltre che pittore, per la verità, e mosaicista. Va da sé, pertanto, che le sue opere siano realizzate in marmo, pietra e legno, oltre che in terracotta e in bronzo. Artista ancor giovane, anagraficamente, egli possiede il senso della storia e la consapevolezza che ogni uomo, pur "nato innanzi l'aurora" è antico quanto la specie, quanto il mondo conosciuto. Ogni opera d'arte, pur frutto originale di creatività soggettiva, reca in sé il compendio di tutte le esperienze pregresse, attraverso culture e stili. Certo, esistono le mode culturali, l'estetica del nuovo-per-il-nuovo, i giuochini di breve momento che vivacizzano le effimere fiere dell'arte ed elettrizzano i giovani galleristi per i quali gli studi delle tendenze di mercato hanno soppiantato estetica e storia dell'arte... Fortunatamente non tutti gli artisti si adeguano prontamente al "trend", seguendo i sondaggi del momento.
Certo non lo fa quest'artista, che dell'arte ha una visione propria, ed ha messo a punto da tempo un proprio stile, un proprio linguaggio inconfondibile, seppur ricco d'echi, assonanze, richiami, affinità. "Qualcosa di nuovo... anzi d'antico" caratterizza le figure di Barbagallo, che appunto non ricorre all'aniconicità, pur sottraendosi alla rappresentazione mimetica. Ne deriva il senso talora straniante di atemporalità dei suoi lavori, che compendiano senza forzature l'arte negra primitiva già cara a Picasso e Modigliani alle ricerche plastiche che interessarono espressionisti e cubisti. Primitivismo e classicismo sono avvertibili nelle pose arcaiche, nel sapore mitico delle evocazioni, negli archetipi richiamati, oltre ogni limite culturale e spaziotemporale, perché attingono al patrimonio comune dell'umanità intera.
Su tutto questo s'innestano ricerche formali scultoree recenti e attuali, su piani e volumi, pieni e vuoti, spigolosità acri e morbidezze curvilinee, movimenti interni, equilibri e asimmetrie armoniche, che possono ricordare soluzioni plastiche esperite da Barlach, da Duchamp-Villon, Lipchitz, Archipenko, Zadkine, e altri che, seguendo un'univocità di visione strutturale, scomponevano soggetti e spazio in frammenti da ricomporre liberamente in nuove aggregazioni, travalicando le visuali e le successioni temporali, verso una realtà nuova, creata e non raffigurata.
Barbagallo non è tuttavia un formalista puro: il suo interesse per la figura umana, che rende svettante, pronta a librarsi verso l'alto in uno slancio d'ascesi, liberatorio, non si esaurisce in queste pur stimolanti indagini, in stilizzazioni eleganti, in giuochi geometrici complessi, nella ricerca di una scultura tuttora viva, oltre la "lingua morta" della statuaria monumentale, celebrativa e retorica.
Di fondo preesiste un altro tipo d'interesse, antropologico, legato alla natura del genere umano e al suo destino, ai conflitti interiori individuali e collettivi, alle nevrosi dei singoli e alle derive d'intere civiltà, alle eterne domande senza risposta che sfiorano ciascuno di noi quando solo invece di fissare video o monitor contempla in silenzio il cielo stellato.


Carlo Melloni

Scultura viva

Questo artista,come suol dirsi,ha la scultura nel sangue poiché appartiene a una famiglia che si tramanda di padre in figlio il mestiere di scalpellino. Le ambizioni del giovane Orazio però vanno oltre la perpetuazione della nobile tradizione di famiglia e,appena può, frequenta l'Istituto d'arte e poi l'Accademia di Brera. Compie,cioè,quel salto di qualità che da abile artigiano lo trasferisce ai piani alti dell'arte. Nel frattempo si è guardato attorno ha scoperto i grandi della sculture del suo tempo, tenendo d'occhio anche i Maestri del passato. La sua scultura, anche se mostra, come è stato giustamente notato, un occhio di riguardo nei confronti degli esiti scultorei di Fritz Wotruba e di Arturo Martini ( dal primo mutua la concezione della figura umana come parte di uno spazio architettonico, dal secondo la costrizione a racchiudere le forme in un plasticismo di stampo classico), proprio attraverso gli insegnamenti di questi Maestri, Barbagallo si volge al passato per scoprire le radici più profonde del suo fare scultura. Penso, ad esempio, ad un Anelami, in cui il coniugio tra scultura e architettura si realizza indubbiamente nel segno dell'armonia, ma dove anche il rigore delle forme imprime alla struttura plastica una fermezza fortemente radicata nel pensiero che l'ha concepita.

L'intervento al molo sud

Il progetto ideato da Barbagallo per il molo sambenedettese è una "Maternità" strutturata in modo da conferire al bassorilievo una spinta stereoscopica. Le gambe della donna, che sorreggono l'infante, si protendono in avanti e suggeriscono l'idea non di un grembo materno dolcemente ancestrale, bensì di un sostegno umano terrestre, una sorta di rifugio,fermo e tetragono,contro ogni ingiuria. Questa sicurezza sta nella fierezza del volto materno e nella spigolosità della sua complessione anatomica. L'afflato materno sta, invece,nell'incavo semicircolare del busto della donna, entro il quale s'iscrive il volto sferico del bambino la compenetrazione di queste forme circolari spegne l'angolosa conformazione del tutto e dona alle due figure protagoniste quel senso di reciproca appartenenza, di rapporto simbolico che l'artista ha voluto rappresentare rompendo gli schemi abusati di una iconografia, che molto concede agli stereotipi proprio di questo soggetto.

San Benedetto del Tronto 20-26 giugno 2004

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